Album di famiglia

      
Stemma famiglia Giudici
Pare che il capostipite della famiglia Giudici fosse Lanfranco Cicala (o Cigala), cantore e poeta nonché ambasciatore della Repubblica di Genova. Lanfranco viene per la prima volta menzionato nel 1235 come iudex, ossia giudice. Da questo ceppo originario genovese derivano anche gli altri due rami della famiglia, quello lombardo e quello siciliano. A quest’ultimo apparteneva Enzo Giudici.
Lo stemma di famiglia (riprodotto qui a lato) risale all’epoca dei crociati.
Secondo quanto tramandato oralmente in famiglia, avrebbero il medesimo capostipite tutti coloro che portano il cognome Giudici o Giudice, mentre non vi sarebbe alcuna parentela ancestrale con i vari Del Giudice, Dal Giudice, Lo Giudice e simili.



Paolo Giudici, padre di Enzo, era allo stesso tempo intellettuale e uomo d’azione, l’incarnazione del tipico ideale romantico dei primi del '900.
Durante la prima guerra mondiale aveva infatti combattuto tra gli Arditi, riportando gravi lesioni agli occhi a causa dei gas nervini utilizzati in quel conflitto.
Al tempo stesso era intellettuale di profonda cultura, saggista, romanziere, storico, arabista, autore tra l'altro di una grammatica della lingua araba destinata in particolare alle truppe coloniali italiane e di una storia d'Italia in otto volumi, portati poi ad undici con i successivi aggiornamenti.
Probabilmente l’impresa più ardua della sua vita fu però comprendere suo figlio e farsi comprendere da lui.



La madre di Enzo Giudici era Isabella Sorge, anche lei nata a Mussomeli. Donna elegante e raffinata, perse la vita in giovane età, a causa di una febbre tifoidea contratta durante il soggiorno a Parma, dove il marito Paolo aveva ottenuto un incarico per l'insegnamento in un liceo.
All’epoca Enzo, suo unico figlio, aveva meno di tre anni.
Anni dopo fu lui stesso ad annotare sulla foto riportata a lato: “mamma”.








Immagini giovanili di Enzo Giudici

Un biglietto di auguri scritto da Enzo Giudici giovanissimo (circa 9 anni) in occasione dell’onomastico degli zii che lo allevarono come un figlio fino all'età di dieci anni.
Si tratta di un vero e proprio sonetto, elaborato secondo lo stile aulico dell’epoca.





Trascriviamo qui a lato il testo del sonetto per facilitarne la lettura:




Un acquarello giovanile di Enzo Giudici
Odo di rosignol canti soavi
Vibranti nell’azzurro firmamento
E d’augellini un dolce cinguettìo
Portato dal soffiar lieve del vento

Alba. Quest’alba finalmente sorta,
aspettata per molte settimane,
la più grandiosa per me festa porta
che si potrà avverar solo stamane

E’ oggi il tuo onomastico, mammina
Ed anche il tuo, mio caro Zio Papà,
a te ho preparato una tendina
un portafoglio il cuor tuo gradirà

Piccoli doni, debole riflesso
Dell’amor che per voi nel cor mi stà
Ma voi non guarderete, vero¿, ad esso
Né dei miei doni alla paueità


Io non mi scorderò di questo giorno,
ma sarò sempre buono e ubbidiente
di be’ pensier, di belle azioni adorno
e molto studioso e diligente

E sol così potrò io compensare
Quello ch’oggi non v’ho potuto offrire,
ma tuttavia che ho un cuore che sa amare
dimostra quel che v’ho voluto dire

E in questo giorno pieno di beltà
Che porta grande gioia nel mio core
Sia in ei principio di felicità.

D’una felicità che duri eterna,
d’una felicità che mai morrà,
ecco l’augurio del tuo caro Enzo,
cara mammina, caro Zio Papà.







Una immagine degli zii senza figli che allevarono il giovane Enzo Giudici, ai quali egli era affezionato come a dei veri genitori.
Sono essi i destinatari del sonetto di auguri riportato più sopra.



Nell’album di famiglia, tra gli altri personaggi illlustri e più noti, quali Paolo Emiliani Giudici e Giuseppe Sorge, merita una menzione particolare un prozio che Enzo Giudici non ebbe modo di conoscere ma del quale condivideva parecchi aspetti caratteriali: si tratta del pro zio Desiderio, detto anche “Testa di ferro” per via del suo carattere forte e determinato.
Venne nominato esecutore testamentario da un principe locale, affinché provvedesse alla spartizione delle terre del proprio latifondo tra i contadini. Il principe sapeva che Desiderio Sorge era l’uomo adatto per questo compito, perché ne conosceva le capacità, la rettitudine e la condivisione di idee.
L’impresa era, però, pericolosamente rivoluzionaria per l’epoca e venne fortemente osteggiata dai poteri forti locali, più o meno occulti. L’ostinazione di Desiderio Sorge nel voler portare a termine l’incarico di cui condivideva appieno il significato, e ciò nonostante gli ostacoli incontrati e le minacce ricevute, gli costò però la vita. In seguito la mafia rivendicò spudoratamente il suo gesto in una lettera, riportata nel libro La mafia come metodo e come sistema, di Francesco Brancato.; in realtà le intenzioni di quella rivendicazione erano dirette a coprire le vere ragioni dell'agguato, più che a chiarirle. L'esecutore materiale dell'omicidio venne infatti arrestato, anche grazie alla collaborazione attiva (sarebbe forse più corretto dire "investigativa") della famiglia Sorge, mentre i mandanti non vennero invece mai individuati, almeno formalmente.