Un sonetto di addio

Il carattere gioioso e combattivo di Enzo Giudici, pur facile ad accessi di collera improvvisi e violenti, ma ancor più rapidi ad esaurirsi, subì un profondo mutamento negli anni  immediatamente precedenti la sua morte. A detta di chi lo conosceva più intimamente, egli pareva presagire la propria fine imminente, nonostante non vi fossero motivi apparenti a conferma di un tale timore.
In una lettera all'amico Antonio Possenti del 22 dicembre 1980 scrisse: "L'amore e il dolore sono entrambi infiniti e nessuno dei due può annullare l'altro". E l'amore e il dolore, in quel periodo, permeavano in egual misura la sua anima, nel timore - all'epoca quanto mai reale - di perdere uno o addirittura entrambi i propri figli, per i quali avrebbe dato volentieri la vita, e per i quali effettivamente la donò, in cuor suo.

E' da questo amore e da questo dolore che scaturisce il sonetto che venne ritrovato nel suo portafoglio dopo la sua morte, un sonetto che ha il sapore di un addio alla vita ma anche agli affanni che l'accompagnano.


Presentimento di morte


Nessun ricordo più, nessun rimpianto
fiorirà nel deserto del mio cuore, 
in pietra s'è cangiato ogni dolore,
in tenebra s'è spento ogni mio canto.

E tu che muta ti scioglievi in pianto
quanto affannata più eri d'amore,
quanto più ti struggevi di languore
nel desiderio che sofferto hai tanto,

non sentirai più nulla, anima mia,
né più l'eterno bramerai riposo,
stanca e affranta dalla lunga via

che dell'antico affanno e dell'annoso
tormento tutto eternamente oblìa
chi dell'ignuda terra è freddo sposo.

Enzo GIUDICI